L’euforia può giocare brutti scherzi.
Ben ricordiamo quella che, nella storia recente, è stata la crisi più grave, quella definita “bolla dot-com”, che ha coinvolto tutti i mercati, non solo quelli tecnologici (per inciso, il nostro MIB si sta ancora “leccando le ferite”, essendo ancora ben lontano, nonostante l’importante recupero dell’ultimo anno, che lo ha portato a toccare i 30.000 punti, dal massimo di oltre 51.000 punti del 7 marzo 2000): una fase durata circa 3 anni, che ha portato le quotazioni di molte società a valori privi di fondamento, a cui hanno fatto seguito crolli memorabili, con molte aziende spazzate via.
La situazione attuale, sgombriamo subito il campo, non ha nulla a che vedere con quanto successo 24 anni fa: certamente oggi abbiamo dei “players” di dimensioni assolutamente gigantesche, sia in termini di quote di mercato che di capitalizzazione (7 aziende valgono circa il 50% del Nasdaq e circa il 20% dello S&P 500), ma, nel loro caso, per quanto le quotazioni siano elevate non si possono certo dire che siano il frutto di una “bolla”. Ma, vuoi per le norme che regolano i mercati, con una maggior “presenza” degli organismi di controllo, vuoi per l’aumentata concorrenza, vuoi per la maggior cultura finanziaria degli investitori, vuoi, soprattutto, per le diverse condizioni in cui si trova l’economia mondiale, siamo in un mondo completamente diverso.
Ciò detto, tornando all’euforia, è indubbio che quanto successo da fine ottobre (anche se, in questi primissimi giorni dell’anno, qualcosa è cambiato) la ricorda in tutto e per tutto: qualsiasi asset, ad eccezione del petrolio, ha avuto, in soli 2 mesi, performance a doppia cifra, generando plusvalenze importanti e una diffusa sensazione di ricchezza (soprattutto laddove, come negli USA, la tendenza degli investitori è quella di privilegiare gli investimenti più speculativi, quali sono i titoli azionari).
Forse anche per questo assistiamo, in questi giorni, a dichiarazioni, da parte degli organismi monetari, che sembrano gettare “acqua sul fuoco”, quasi a voler raffreddare gli entusiasmi.
Se, negli ultimi giorni del 2023, in molti prevedevano tagli dei tassi già nei primissimi mesi del nuovo anno (con le stime di probabilità che erano arrivate a sfiorare il 90%), oggi il “plotone” pare piuttosto assottigliato (siamo scesi a circa il 60% di probabilità). A guidare la “revisione” delle stime S&P Global, che ha spostato a giugno le lancette dell’orologio dei primi tagli, nella convinzione che questo sarà un anno di non così scontato. Con riferimento, poi, al nostro Paese, prevede che addirittura il rendimento del nostro BTP decennale dovrebbe attestarsi intorno al 4,76%, il che significherebbe, rispetto ai rendimenti attuali, circa l’1% in più. Un peggioramento, peraltro, non dovuto a motivazioni legate alle note criticità del nostro Paese (bassa crescita, elevato debito, crisi demografica), quanto piuttosto ad un contesto generale meno brillante.
Una tesi che sembra avvalorata, appunto, dalle parole di Luis de Guindos, vice Presidente della BCE, che ha dichiarato che i dati in arrivo lasciano presagire delle prospettive meno positive e un futuro un po’ più incerto. Ricordando la necessità di politiche di bilancio sostenibili e rivolte agli investimenti. Mentre, dall’altra parte, l’inflazione, per quanto prevista in calo sia quest’anno che il prossimo, ha dato, nell’ultimo mese, segnali di “risveglio” che invitano alla cautela, rinnovando il solito “dilemma”: accelerare sui tagli, privilegiando la ripresa economica, o confermare la “linea dura”, mettendo al primo posto la difesa del potere di acquisto.
Sano realismo. Questo sembra l’atteggiamento assunto dai mercati in questi giorni. Da qui il rialzo dei rendimenti dei titoli obbligazionari (il nostro governativo è passato dal 3,50% a circa il 3,83%, il bund da 1,97% al 2,18%, il treasury dal 3,75% a circa il 4%), che rispecchiano meglio la situazione in cui ci troviamo e le relative attese. Mentre, per quanto riguarda gli indici azionari, si nota un andamento meno lineare: che non modifica la tendenza di fondo, ma che ci ricorda che non tutti i giorni sono uguali, soprattutto laddove coincidono con l’arrivo di dati macro, il cui segno può di volta in volta raffreddare gli animi piuttosto che invitare a privilegiare l’assunzione di un maggior rischio.
Chiusura positiva, ieri sera, per i mercati americani, con lo S&P 500 (+ 0,6%) ad un passo dal record storico.
L’andamento dei mercati Usa, confermato questa mattina dai futures, trascina la giornata asiatica, con tutti gli indici del far East finalmente tutti positivi.
Si conferma, ancora una volta, il Nikkei a Tokyo, che sale dell’1,77%, continuando la sua marcia di avvicinamento al massimo di sempre (oggi fa segnare il nuovo massimo dal 1990).
Molto bene anche, a Hong Kong, l’Hang Seng, in rialzo dell’1,54%.
Respira anche Shanghai, seppur con un più contenuto + 0,31%.
Indicazioni positive dai futures, ovunque in solido rialzo (+ 0,30/0,45%).
Stabile il petrolio, con il WTI a $ 72,02 (+ 0,80% questa mattina).
Gas naturale Usa $ 3,018 (- 0,92%).
Oro sempre intorno a $ 2.040.
In recupero lo spread, sceso sotto i 160 bp (159.5).
BTP al 3,83%, sui valori del giorno precedente.
Bund 2,21%.
Treasury Usa fermo al 4,02%.
Recupera terreno l’€, tornato vicino a 1,10 (1,0984).
Bitcoin a $ 46.110, in calo dell’1,20% nonostante l’approvazione, da parte della SEC di ben 11 ETF legati all’andamento della criptovaluta, fatto che dovrebbe aiutare a rendere più “trasparente” il mercato, anche se rimane ancora molta strada da fare.
Ps: sappiamo quanto il costo dell’energia “pesi” sulla determinazione dell’inflazione. A Cuba, le ultime rilevazioni ci dicono che è intorno al 30%. Dal 1° febbraio, però, il prezzo della benzina passerà a $ 1,10. Un prezzo, viene da dire, ben inferiore ai nostri € 1,750/1,8 circa. Peccato che attualmente i cubani la paghino $ 0,20. Tradotto, significa un aumento del 528%. Un’altra rivoluzione. Però al contrario.